Nell'underground l'unione fa la forza: Discojuice

Nell’underground l’unione fa la forza: Discojuice

DJ, producer a amante assoluto della musica, Paolo Russi aka Discojuice si racconta dal suo ultimo EP “Jazz & Drama” alla fascinazione per la musica House, ripercorrendo le tappe dell’underground italiano e immaginando nuovi scenari possibili

Partiamo da Jazz & Drama EP, il tuo ultimo disco uscito il 16 luglio su Taste Rec. Vuoi parlarmi di come sono nate le quattro tracce?

Jazz & Drama Ep è nato in pieno lockdown. Tutte le tracce sono figlie di quel periodo, tranne una che era già pronta qualche mese prima. Il lockdown per me è stata una manna dal cielo perché sono riuscito a dedicarmi appieno a quello che più mi piace fare nella vita, la musica. Come produttore io non parto con l’idea di fare delle tracce che poi andranno in un Ep. Intanto produco, poi mi ritrovo con un po’ di tracce e decido quelle che si amalgamano meglio. Nel periodo del lockdown ho prodotto tante tracce che, in un modo o nell’altro, si agganciavano, forse perché i sentimenti e lo stato d’animo erano sempre quelli.

La struttura dei brani è tipicamente “house”, ma con delle variazioni, specie nelle tracce più lunghe, che cambiano anche il mood dei pezzi.

Esatto, stai parlando di Drama e di Do Not Sleep, due tracce che sono state fatte in una maniera analoga. Do Not Sleep tra l’altro prodotta insieme al mio amico fraterno Antioco. L’abbiamo suonata insieme e l’ossatura del brano è stata fatta live. La lunghezza non era prestabilita: abbiamo iniziato a suonare e una volta ottenuta la registrazione, abbiamo deciso di lasciare tutto quello che abbiamo creato. Drama l’ho composta da solo e la peculiarità del brano è che tutti gli strumenti, dalla cassa al basso, li ho voluti registrare live uno alla volta. C’è un suono iniziale che può sembrare quasi techno ed è un effetto fatto col Moog e con un sintetizzatore Prophet. Di Solito parto dalla ritmica, dalle cose un po’ più facili, in quel caso sono partito da degli effetti. Le percussioni le ho suonate anch’esse live con la MPC.

In Drama si sente un campione vocale molto evocativo. Da dove deriva?

Le voci sono prese da spezzoni di vecchi film drammatici degli anni ’50-’60. Una volta finita la parte di stesura mi sono reso conto che era molto scuro come brano, anche se le percussioni gli danno quel calore in più. Mi sono detto che ci sarebbero state bene delle voci. Così mi sono agganciato all’altra traccia, Come Now, su cui avevo usato lo stesso lavoro di campionamenti vocali. Sono tracce che ricalcano la mia storia, dopo averne fatte ascoltare alcune ai ragazzi di Taste Rec. abbiamo trovato la giusta “quadra”.

Nell'undergound l'unione fa la forza: Discojuice

Com’è nata la collaborazione con Taste Rec.?

Li ho conosciuti tramite dei nostri amici produttori, i The Robinson, anch’essi che hanno pubblicare un Ep sull’etichetta. Ci siamo trovati più volte da loro nel loro spazio, Sam Sampling Moods e siamo rimasti in contatto. Mi sono piaciute come persone e per il modo in cui lavorano, nel senso che a loro piace collaborare con le persone. Questa è una prerogativa che abbiamo anch’io e il mio socio con la nostra etichetta.

L’unione fa la forza: è ora che in Italia le etichette indipendenti comincino a dialogare di più fra loro

Parliamo allora dell’etichetta che co-gestisci, Flankup Recordings.

La nostra etichetta è nata da un’esigenza, ovvero l’esserci resi conto che, specialmente a Milano, la realtà a noi più vicina, ci sono tante piccole realtà bellissime, ma che o fanno fatica a dialogare o, per propria scelta, non escono dal loro orticello. In parte posso capire questo atteggiamento perché il mercato, specialmente qua in Italia, non aiuta, anche a livello istituzionale. Molti ritengono che per riuscire a sopravvivere non possono dare un pezzo di sé a qualcun altro.

Anni addietro le etichette indipendenti erano molto più prolifiche e presenti sulla scena. Oggi in Italia ci sono tante piccole realtà che lavorano bene, ma che sono scollegate fra loro.

Questo ragionamento ha dei limiti perché, specialmente nell’ambito musicale, l’unione fa la forza. Da quando è nato il clubbing è sempre stato così e, almeno in Italia, lo spirito era quello. Anche le etichette nascevano così: i dj, anche forti, si mettevano a lavorare come una vera e propria industria. Un po’ come succedeva nei primi anni 90 con la nostra italiana Heartbeat, che ha sfornato brani suonati in tutto il mondo o con la famosissima americana Def Mix tra i cui fondatori troviamo artisti come Frankie Knuckles, David Morales e Satoshi Tomiie.

La speranza per Milano è che, dopo la situazione che abbiamo vissuto, le etichette indipendenti riscoprano dei punti di contatto.

Esattamente, dalle piccole alle più grandi. Non voglio esser troppo integralista. Anche quando la collaborazione viene meno non vuol dire che quella gente ci metta meno passione, anzi. In tutte le realtà musicali ci deve sempre essere la dose di cuore e passione. Io avverto questa necessità e, anche parlando con te adesso o con altre piccole realtà, ci siamo resi conto che manca qualcosa. Forse le realtà piccole hanno più voglia di mettersi insieme per creare qualcosa di importante. Il discorso non è competere, ma dare qualcosa. Quando arrivi a un certo livello è un aspetto essenziale. Se parliamo di etichette indipendenti ci accorgiamo che, anni addietro, erano molto più prolifiche e presenti sulla scena. Adesso stanno ritornando, ma manca quel qualcosa in più.

Dovremmo organizzare un bel festival cittadino qui a Milano dove permettere alle realtà indipendenti di mettersi in mostra!

In giro per l’Italia abbiamo visto che si creano già delle piccole fiere legate alle etichette indipendenti. Sono cose che aiutano a far conoscere anche la propria musica. Sicuramente in Italia ci sono tante piccole realtà indipendenti che lavarono bene, ma che sono scollegate l’una dall’altra. Ogni regione ha delle micro-realtà che però avrebbero bisogno di coesione e opportunità per confrontarsi e dimostrare la propria presenza alle persone.

Questo a mio parere potrebbe aiutare anche il mercato di vendite in Italia che è molto scarso rispetto ad altri paesi. Il prodotto viene venduto meno all’interno e più all’estero, quindi perché non venderlo anche in casa propria? Noi ci siamo abituati a comprare direttamente dalla Germania o dall’Inghilterra, però ci sono negozi di dischi in Italia con prodotti italiani. Un’etichetta all’inizio si rapporta con i negozi presenti nella propria città e ogni anno c’è gente che si approccia a questo mondo e inizia a comprare dischi. In questo momento i negozi di dischi stanno lavorando parecchio, il che è sicuramente positivo.

Quello che forse manca oggi è qualcosa di veramente nuovo, che uno si ricordi fra 20 anni. Io non mi sento commerciale, però non ci vedo niente di male nel fare un brano che poi possa risultare un po’ più “popolare”

La fascinazione per l’House music, le prime macchine e la passione per i dischi

Tu come ti sei approcciato al mondo della musica e alla figura del dj?

Come molti mi sono avvicinato alla musica sin da piccolo. Mio padre è musicista e quindi mi ha introdotto lui alla musica. Dopodiché mi sono approcciato al pianoforte e ho studiato musica per svariati anni, col rammarico di non aver continuato il conservatorio. Con l’avvento dei midi files negli anni ’90 mio padre aveva iniziato a produrre le sue basi in casa e ho iniziato anch’io a produrre le mie prime basi usando i suoi sequencer come i Roland Mc-50/Mc-300 insieme ad una Roland E86 o una Korg M1. Negli anni mi sono capitati per le mani anche dei sintetizzatori che adesso pagherei oro per avere anche semplicemente come collezione. Mi tornerebbero anche molto utili perché molti suoni li sto andando a riprendere proprio da quelle drum machine.

Quindi c’è un aspetto importante legato alla ricerca sonora, nel tuo approccio musicale?

Penso che al giorno d’oggi sia stato inventato quasi tutto a livello sonoro, anche se usciranno sempre dei nuovi sintetizzatori o drum machine. Personalmente però sto scoprendo ancora degli strumenti degli anni ’70 e ’80 di cui neanche sapevo l’esistenza quindi ho ancora da molto da ri-scoprire. A livello sonoro sono ad ampio raggio, qualsiasi cosa può essere utile. Io mi sono avvicinato all’elettronica, prima ancora di avere dischi, grazie a quello che all’epoca passava in radio o dalle prime cassettine che arrivavano nelle mie mani: dalla techno, alla progressive fini ad arrivare alla House Music che ho scoperto quando avevo 12 anni, un nuovo genere per me bellissimo. Tra l’altro in quegli anni erano usciti dei brani, poi diventati celebri, come Gypsy Woman di Crystal Waters o Hideaway di De’Lacy. Dopodiché ho deciso che per me esisteva solo la house music come genere in cui mi identificavo, da lì iniziò a balenarmi nella testa di voler fare il Dj, fino a diventare nel gli anni a seguire un vero e proprio sogno da realizzare. 
Finalmente all’inizio del ’99 è arrivata la mia prima console e ho iniziato finalmente a comprare i primi dischi.

E da lì sei rimasto fedele al tuo genere, la house music che forse, rispetto agli anni ’90, non è oggi nel suo periodo più felice.

Adesso ci sono sono proprio dentro totalmente. Per la house secondo me è un periodo molto creativo perché esce veramente di tutto grazie anche ad un ritorno/riavvicinamento allo “strumento”. Certo, non è da paragonare al mercato e  il numero di vendite degli anni ’90, in cui si stampavano molte più copie. Oggi per un’etichetta indipendente è un gran traguardo riuscire a stampare e vendere 300 copie. Adesso per esempio siamo in un negozio di dischi, Fred Records, dove vengo spesso e vedo che escono tante cose nuove per ogni genere. Devo dire che ho più punti di riferimento, uno su tutti MUZIC PLANET di Meda che è stato fondamentale per la mia crescita musicale e artistica sin dagli inizi, grazie all’ormai mio caro amico Alberto che lo gestisce da più di 20anni, 23 per la precisione.


Quello che forse manca oggi è qualcosa di veramente nuovo, che duri nel tempo. Manca qualcosa che uno si ricorda fra 20 anni. Perché degli ultimi 20 ci si ricorda ben poco purtroppo. Molti danno la colpa principale all’avvento della minimal che, non possiamo negarlo, ha un po’ oscurato il resto. Anch’io per un periodo l’ho suonata e tuttora mi piace e grazie alla minimal ho conosciuto degli artisti che seguo tuttora e che sono dei maestri dell’elettronica come Trentemœller o Booka Shade.
Forse molti hanno paura di risultare commerciali. Io non mi sento commerciale, però non ci vedo niente di male nel fare un brano che poi possa risultare un po’ più “popolare”.

Imparare dalle grandi realtà estere, senza diventare troppo “esterofili” può contribuire a mettere in luce la scena italiana

Forse dipende anche da come il pubblico si è abituato a porsi negli ultimi anni, richiedendo sempre qualcosa di nuovo e “adatto” al momento. Un lascito, non molto felice, dell’esplosione dell’EDM.

Vero, però io fra 20 anni mi ricorderò di Avicii, volente o nolente, così come ci si ricorderà di qualche traccia di David Guetta. Sull’EDM è stato detto di tutto e io ovviamente non mi sono mai immedesimato in quel genere. Forse in generale manca un po’ più di rispetto per la musica in generale, indipendentemente dal genere che si fa. Si tende a etichettare un genere perché va più di moda, e a ritenersi underground perché fa figo. Dietro qualsiasi genere c’è un grosso lavoro. Lì poi si apre una parentesi fra clubbing e festival.
Il motivo degli ultimi anni è stato voler portare il clubbing e l’underground nei festival. Secondo me quello è stato un errore madornale perché il clubbing è nato in un modo e fonda le radici in determinati luoghi e contesti. Mettere un dj su un palcoscenico come una popstar non è più clubbing perché lo spettatore non è più soltanto il clubber.

Giusto, ma si diventa popstar nel momento in cui si sale su uno stage oppure è un certo tipo di festival che spinge i dj a comportarsi come popstar?

Un conto è se sei Freddie Mercury, ma se sei un dj che fondamentalmente deve mixare due dischi cosa devi fare per colmare quel gap che non ti può dare un gruppo? Secondo me per riempire quel gap si è dovuto mettere fuochi d’artificio, fumi e quant’altro. Ma il dj non è quello. Riporto parole già dette da Claudio Coccoluto, che di questo ha parlato molto, e che io ho sempre visto come il mio primo maestro fuori e dentro la console. Lo ringrazierò per sempre perché è grazie a lui se amo questo mondo e quest’arte. Bisogna separare i due mondi.

Quando si è voluto portare dei dj, fondamentalmente underground, nei festival si è un po’ ucciso quello da cui venivano. Automaticamente si sono create le guerre tra le agenzie e oggi ci sono dei club anche piccoli, dove i resident sono scomparsi, che fanno a gara a Milano per chi ha l’artista più forte. Da un lato è bello vedere tanti nomi nella propria città anche d’inverno e avere l’imbarazzo della scelta, dall’altro però viene a mancare l’identità di quel club. In un club adesso ci si va in base a chi c’è a suonare, che non è sbagliato, però è bello andare in un posto sapendo che lì si può incontrare certa gente e ascoltare un certo tipo di sonorità.


Uno degli errori più grossi che è stato fatto è di essere diventati un po’ troppo esterofili. In parte lo siamo sempre stati, ma adesso è troppo perché guardiamo agli altri paesi come se fossero su un altro livello, ma non è così. Prendiamo d’esempio il Dekmantel, un evento dove si possono trovare delle Line Up in cui dj poco conosciuti sono inseriti tra i big. 
Per noi fino a un po’ di tempo di fa era una  cosa impensabile, eppure non ci vedo nulla di male. Anche perché in qualche modo si dà spazio anche dj locali o meno quotati.
Nel nostro piccolo invece senza essere organizzatori di eventi, con la mia etichetta ed altri amici abbiamo organizzato dei piccoli eventi e sulle locandine non scrivevamo nemmeno il nome dei dj. Ci siamo accorti che la gente abituata a vivere quella zona, se sa che c’è un posto che fa un determinato tipo di serata che le piace, poi ci ritorna indipendentemente da chi ci suona. Ovvio, non in tutte realtà può funzionare, magari, ma sarebbe la cosa più semplice del mondo. La danza è quello, dall’alba dei tempi.

Le influenze: dal synth pop giapponese alle soundtrack degli anni ’70

Sono contento di queste riflessioni, mi sembrano tutte molto lucide e valide.

Sono punti di vista, non ho la presunzione di aver trovato la cura al male che circonda il clubbing, ma sicuramente oggi sono venute meno delle cose, che se tornassero a un livello normale forse darebbero un incentivo in più. Dei locali storici in tutto il mondo, non sarebbero mai esistiti con le norme vigenti nel 2021. Bisogna guardare indietro per apprendere dall’esperienza degli anni passati, non per ricreare quello che già c’è stato.

Nell'underground l'unione fa la forza: Discojuice

Quali sono le tue scelte e le tue influenze quando prepari un dj set o un live set?

Mi sono anch’io adeguato ai tempi. A livello di generi cerco il più possibile di suonare quello che mi piace e in quello che mi piace cerco di essere molto vario. Fortunatamente ascolto molta musica e nel mio piccolo colleziono musica da tutto il mondo. Ho appena comprato un album synth pop giapponese con sonorità un po’ funky dell’83, Yurie Kokubu – Relief 72 Hours. Rientra nella mia attuale vena artistica, nel senso che mi sento molto influenzato dalle sonorità synth pop/fusion degli anni ’80, con particolare attenzione a quelle Giapponesi. Mi sono avvicinato a quel mondo anche grazie alle colonne sonore di cui sono un grande estimatore.

Durante il secondo lockdown mi ha aiutato molto produrre musica cercando di immaginami la scena di qualcosa. Adoro le colonne sonore specialmente degli anni ’70 che hanno un impronta un po’ più jazz, il primo genere insieme al funk di cui mi sono innamorato. Ma sono anche un malato degli action movie degli anni ’80. Tuttora quando guardo le scene di certi film torno indietro per ascoltare una musica particolare. Mi piacerebbe creare una colonna sonora insieme ad altre persone che curino la parte visiva.

Qui puoi ascoltare il nuovo mix di Discojuice che contiene pezzi del suo ultimo EP e altri brani unreleased

Se avessi carta bianca per la collaborazione dei tuoi sogni, chi sceglieresti?

Ne avrei davvero tanti, ma se dovessi dire un artista che non c’è più, ma con cui mi sarebbe piaciuto molto collaborare, sceglierei Joe Zaniwul. Lui è il creatore dei Water Report che sono il mio primo gruppo in classifica. Adoro quel periodo dell’electric jazz, del free jazz con Miles Davis. Se dovessi scegliere un artista che fortunatamente c’è ancora direi quello che mi ha influenzato più degli altri: Roy Ayers, che tra l’altro ha anche composto delle colonne sonore. Per me mettermi in studio con lui sarebbe un sogno. Come riserva potrei dire, più legato ai giorni nostri, Jamiroquai.

E invece se potessi rifare tu la colonna sonora di un film?

Non mi è difficile trovare una colonna sonora a cui sono molto legato che è quella di 48h comporta da James Horner. É una colonna sonora dei primi anni ’80, di quelle che ancora risentivano del filone delle colonne sonore suonate, ma che presentavano sonorità sia elettroniche che jazz. Oppure le colonne sonore dei primi quattro Rocky!

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