K-Conjog: esiste una scena elettronica italiana?

K-Conjog: esiste una scena elettronica italiana?

K-Conjog (al secolo Fabrizio Somma) è stato ed è uno degli esponenti della cosidetta scena elettronica italiana, venuta alla ribalta a metà anni ’10. Ma ha ancora senso parlare di questa scena? K-Conjog ci regala una lucida analisi delle tappe fondamentali della sua carriera come produttore e offre uno sguardo sul futuro (già presente) in mano alla nuova generazione di musicisti. K-Conjog sarà uno degli artisti che si esibiranno il 24 settembre durante la sesta edizione di Bacchanalia Fest: festival campano che fonde musica, teatro ed arti visive in una suggestiva cornice boschiva.

Ciao Fabrizio, andando a curiosare sulla pagina Bandcamp del tuo progetto K-Conjog ho visto che le tue ultime produzioni risalgono al 2019. Negli ultimi anni hai lavorato a qualcosa di nuovo o hai deciso di prenderti un periodo di pausa?

In realtà entrambe le cose. Il 2019 e il 2020 avrebbero dovuto portare del nuovo materiale, soprattutto dei video, ma anche concerti; poi la storia la conosciamo tutti. Non sono stato uno di quelli diventati iper-produttivi in un’occasione di raccoglimento e di chiusura. A me è successo esattamente il contrario. Il non poter vivere, essenzialmente, e il non poter avere relazioni umane di cui tutti bene o male ci nutriamo mi ha bloccato tantissimo. Per cui ho continuato a scrivere della musica, ma con una marcia in meno, e parallelamente mi sono dedicato ad altro. Ho cominciato, in maniera un po’ nascosta, un progetto che si chiama Correra, per sperimentare. Ho coltivato il mio hobby per la scrittura e ho scritto molto, compreso un mediometraggio che è stato girato l’inverno scorso.
Come K-Conjog sentivo che non c’era alcuno sbocco. Sono dell’idea che il mio è un progetto che prende gli appassionati di musica, non ha l’esigenza di doverci essere per forza. Quando faccio un disco, essenzialmente, è perché lo voglio fare, non per inseguire chissà quale hype. Ho preferito stare in silenzio.

Adesso che le cose sono parzialmente tornate alla normalità hai ripreso il tuo progetto o aspetti il momento giusto per pubblicare del nuovo materiale?

Ho ricominciato quando si è ripreso a fare i concerti e hanno cominciato nuovamente a chiamarmi perché sentivo l’esigenza di voler presentare qualcosa di nuovo. Quello è un circolo: scrivi perché vuoi scrivere, ma anche perché del materiale nuovo ti serve per presentarlo e suonarlo in giro. Io poi mi annoio abbastanza in fretta quindi cerco di non fare sempre le stesse cose. Il tour è anche un po’ un esercizio. Lentamente, anche se più in sordina rispetto al passato, sto tornando a scrivere musica nuova.

In che modo l’avvento del digitale (intorno alla metà degli anni ’10) ha cambiato il tuo approccio alla produzione e cosa ha significato per una generazione di produttori?

Per me è stato fondamentale. Credo di appartenere alla prima generazione che ha potuto sfruttare le possibilità del digitale. Io sono sempre più attempato, ho 40 anni e i giovani sono altri… sono più un vecchio trombone ormai (ride, ndr). Io, così come quelli della mia età, dei primi anni 80, siamo stati i primissimi a godere appieno delle possibilità di un computer, quindi di poter registrare a casa e avere gli strumenti virtuali. Prima, con gli stessi soldi che investivi per comprare un computer con i vari VST, plugin e DAW, ti compravi un sintetizzatore o una chitarra.

Per noi il mondo del digitale è stato salvifico così come anche il mondo di internet, se vogliamo, che ci ha dato la possibilità di fare qualunque cosa. All’epoca facevi un EP di 4 brani e lo mettevi su Myspace o su YouTube. Penso che sia stato il percorso di tutti quella della mia generazione. Ormai è una cosa assodata, mentre noi la vivevamo come un privilegio enorme perché c’erano quelli più grandi di noi che spendevano soldi per le prove, lo studio, le registrazioni e i missaggi. Noi invece ci siamo ritrovati improvvisamente con tutto. Da questo punto di vista c’è da sentirsi fortunati a essere nati nell’epoca del digitale, chiaramente con i pro e i contro che tutti quanti ben conosciamo.

Negli anni il tuo suono è mutato, vedendoti spostare da un approccio più strumentale, quasi indie, a una virata sull’elettronica. Anche questa virata è stata influenzata dall’avvento del digitale?

Quando scoprii la musica elettronica, in generale ne ero ignorante, come quando si approccia per la prima volta qualcosa di nuovo. Quando facevo i primi ascolti pensavo di comprare un campionatore, un sintetizzatore e così via. Poi ho cominciato a scrivere le prime cose e mi sono trovato ad avere il digitale, come si diceva prima, quindi il computer con centinaia di synth da poter utilizzare. Da ascolti decisamente sintetici, mi sono ritrovato a fare una sorta di passo indietro e ho cominciato a registrare gli strumenti. Ho fatto esattamente il contrario. Le produzioni dell’epoca mi sembravano tutte molto riconoscibili nei timbri e nei modi per cui mi stufai in fretta. Non concepivo più l’idea di usare strumenti virtuali. Diventai una sorta di integralista dl suono.

Con il tempo poi ho integrato e ora credo che synth e VST siano praticamente la stessa cosa. Il mio approccio è cambiato. Ormai i computer ti danno delle possibilità talmente elevate che è da stupidi non utilizzarle. A volte sento chi critica dire che i synth devono essere registrati solo in analogico. Non sono d’accordo: se una cosa suona bene, suona bene che sia analogica o che sia digitale. Adoperando tutti questi strumenti, nel tempo li ho visti integrarsi sempre di più in quella che poi era la mia struttura. Molte cose sono diventate più sintetiche in confronto a prima e l’approccio allo strumento virtuale ha influenzato il mio suono.

K-Conjog: esiste una scena elettronica italiana?
K-Conjog

Come K-conjog sei stato un esponente di spicco della cosiddetta scena elettronica italiana, diffusa negli anni da etichette quali White Forest o Bad Panda. Ti sei effettivamente sentito parte di questa scena?

Ti dico la verità: no. Chiaramente conosco molti di quelli che hanno abitato questa scena virtuale o li ho incrociati a qualche festival o a qualche serata. Però non mi sono mai sentito parte di un movimento, per una questione di approccio personale o di genere. Tuttavia nel momento in cui si fa un elenco, posso tranquillamente comparire anche io. Ricordo che intorno al 2014 si accese una sorta di mega lampadina intorno a tutti quelli che facevano musica elettronica in Italia.

Ci fu un’edizione del ROBOT molto bella che ci vide in tantissimi a suonare lì. La stampa di settore era molto interessata a questo movimento elettronico italiano. Io mi sono sempre sentito una sorta di pesce fuor d’acqua perché le mie produzioni erano molto classicheggianti all’epoca, molto poco inclini al dancefloor, cosa che è molto più facile sentire da me oggi. Quindi in qualche modo mi ero amalgamato, però non ho mai visto una rete reale di produttori. Anche con un po’ di dispiacere, perché sarebbe stata una cosa carina.

Oggi che sono passati un po’ di anni da quel periodo d’oro in cui l’elettronica italiana ha avuto un picco di visibilità, le cose sembrano essere un po’ cambiate. Molti di questi artisti sono maturati coltivando suoni più personali, altri si sono votati a progetti di natura più sperimentale. Pensi che abbia senso oggi, dopo quasi 10 anni, parlare di scena italiana legata alla musica elettronica?

La domanda dovrebbe essere: “esiste una scena elettronica italiana?” Probabilmente sì, però io la bazzico poco. Credo per un motivo essenzialmente anagrafico. Sono convinto che prima ci fosse di più l’esigenza di dover pensare a una scena elettronica rispetto a oggi perché l’elettronica ha contaminato praticamente qualunque genere. Ormai l’elettronica è ovunque quindi spero esista – e sono sicuro che ci sia – una scena di ragazzi giovanissimi, freschi ventenni che fanno cose incredibili e che non conosciamo ancora. Per esempio io seguo dei ragazzi napoletani, i Thru Collected che fanno cose bellissime e io punto tutto su di loro.

Ormai noi abbiamo fatto il nostro tempo, con tutto il bene. Continueremo a fare i dischi però, sarà perché ho 40 anni, non mi sento più il giovane che cerca di farsi conoscere. I miei 10-15 anni di palchi impossibili e avventure di qualunque caratura me li sono fatti. Più che in quelli della mia generazione punto sui nuovi. A dirti la verità mi è sempre più difficile anche comunicare e acquisire il linguaggio che si sta creando adesso. È una cosa strana e che mi spaventa tantissimo perché significa che mi sto facendo veramente vecchio (ride!).

Sicuramente l’anagrafe incide così, come dicevi anche tu, proprio il fatto di sentirsi parte di un’onda, di una scena.

Per certi aspetti io credo che sia pura fisiologia. Pensiamo ai giocatori di calcio: Totti saprà sempre giocare però ora il suo corpo non ce la fa più a competere con i ragazzini. Penso che questo succeda anche in parte con la creatività e la musica. Più andiamo avanti e più è difficile riuscire a stare al passo. Si acquisiscono dei codici, diventiamo sempre più stanchi nell’apprendere cose nuove e per certi versi ci scocciamo di impararne altre. Per me quelli un po’ più attempati, in maniera sana e genuina, possono continuare il loro discorso, che sia il loro però. Lo dimostra la storia della discografia di tutti i nostri musicisti preferiti. Il disco della maturità va bene però le cose che hanno colpito il pubblico sono quelle della giovinezza, non c’è niente da fare.

Leggevo in una tua intervista passata che ti sarebbe piaciuto “mettere le mani” su qualche artista per produrlo. Ci sei riuscito?

Sì e no. Mi è capitato di collaborare con qualche giovane che è una cosa che a me piace molto: mettere quello che so fare al servizio di una terza persona. Spero che più in là verrà fuori questo materiale che per adesso dorme.

Nei tuoi live ultimamente hai inserito anche la dimensione della voce e del canto. Cosa ti ha spinto a inserire anche questo elemento? È sempre stato un tuo desiderio o si è trattato di una scoperta graduale?

A me, che sono un talentuosissimo cantante da spiaggia, piace molto il folk americano e la canzone, da cantare e da scrivere, è sempre stata la mia passione. Però un conto è farlo a casa, con una birra e una sigaretta, un’altra è farlo in un live, cosa per cui non mi sono mai sentito all’altezza. All’epoca in cui stavo scrivendo il mio ultimo disco vivevo la frustrazione di star facendo la stessa cosa e io non amo ripetere sempre, quindi cercavo degli elementi nuovi un po’ più freschi con cui approcciarmi alla scrittura.

Mi sono lanciato e alla fine è andata discretamente bene. All’inizio è stato un trauma totale, mentre adesso mi sento decisamente più a mio agio e provo a instaurare una relazione con chi mi viene a sentire. Sto imparando sempre di più a gestire la voce, una cosa che arriva anche con l’esperienza. Volevo degli elementi nuovi e li ho trovati nel canto.

Nei tuoi live quanto è importante la componente visiva?

È fondamentale e nasce dal fatto che i set di musica elettronica sono terribili da vedere. Quando vai a sentire una band vedi l’interazione fra i componenti, la tensione, l’adrenalina. Spesso e volentieri invece chi fa musica elettronica sta impalato dietro a delle macchine. Non è proprio il massimo quindi si cerca di creare un’interazione diversa con il pubblico che i visual e le immagini aiutano tantissimo. Preferisco sempre suonare con le immagini e le porterò anche a Bacchanalia Fest.

A proposito di Bacchanalia Fest, a breve ti esibirai in questo festival che unisce musica, teatro ed arti visive in una suggestiva cornice rurale. Cosa ti aspetti dalla tua performance?

Sono molto eccitato al pensiero di suonare in mezzo alla natura e mi piace l’idea di poter vivere un contesto del genere. Prima di tutto spero che vi piaccia il set, di farvi divertire e anche no. Infatti nel mio set ci saranno dei momenti più riflessivi. La sensazione, a qualche settimana dalla performance, è decisamente positiva.

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