Indian Wells: le nuove rovine sono già qui

In piena pandemia è uscito “New Ruins” in cui Indian Wells si chiede che cosa il nostro stile di vita potrà lasciare alle future generazioni.

Ci sono domande che stimolano il nostro senso critico e quello in cui viviamo è sicuramente un periodo in cui gli interrogativi trascendono la nostra capacità di trovare delle risposte. Il senso di incertezza verso il futuro si fa spazio nel momento in cui osserviamo una società che progressivamente perde il contatto con la realtà per approdare in una metarealtà. L’evoluzione artistica del progetto Indian Wells evolve di pari passo con gli interrogativi di Pietro Iannuzzi, il produttore cosentino che vi sta dietro. Se le atmosfere malinconiche e sognanti di Where The World Ends indugiavano sulla condizione di isolamento, il suo ultimo Ep New Ruins lascia intravedere un futuro le cui nuove rovine sono già visibili; non più maestose opere architettoniche, ma monumenti di un’inesorabile processo di virtualizzazione.

Indian Wells: le nuove rovine sono già qui
Indian Wells

La tua ultima uscita New Ruins ha visto la luce durante un periodo tanto imprevisto quanto difficile. In che modo la reclusione e la distanza fisica dal resto del mondo hanno influito sul tuo lavoro?

Guarda, nonostante New Ruins sia uscito a fine 2020 in realtà le tracce sono quasi tutte risalenti all’era pre covid. Per cui ti direi che hanno influito davvero in minima parte su questo lavoro. Poi considera anche che sono “recluso” di mio, faccio poca vita mondana, sono fondamentalmente un casalingo. Anzi durante la pandemia ho avuto un periodo di iperproduzione, forse anche dovuto alla necessità di non pensare troppo a quanto stesse accadendo lì fuori, questo almeno fino ad aprile. Poi è nata mia figlia ed è iniziata tutta un’altra fase della mia vita.

Un Ep che è anche una riflessione sul nostro stile di vita e le sue conseguenze potenzialmente distruttive. È stata l’urgenza di questi temi a darti lo stimolo per New Ruins?

Sì, certo. Partendo da una banalissima domanda: fra 200 anni cosa verrà ricordato di questa epoca? Cosa lasceremo alle generazioni future? Da qui il titolo di “Nuove Rovine”. Se è vero che siamo circondati da opere architettoniche del passato, che ci ricordano in qualche modo la nostra storia, cosa resterà del nostro stile di vita? Dove andranno in gita scolastica gli studenti del 2200? (ammesso che ci arriviamo) in un vecchio magazzino con dei server?

La nostra vita si è inevitabilmente spostata nel metaverso. E come possiamo leggere dai giornali, si spinge sempre di più in questa direzione. Distrarci dal reale è la nuova mission delle big company di internet. Con dei risultati evidenti anche nel nostro modo di pensare, elaborare le informazioni, comportarci nella società. In questo lavoro hanno contribuito molto anche le teorie di Luciano Floridi, un filosofo italiano, che ha coniato termini come infosfera e iperstoria, andando a indagare come ormai virtuale e reale siano interdipendenti o meglio ancora, come il reale sia ormai totalmente dipendente dal virtuale.

Com’è stato collaborare con Max Cooper e vedere il tuo lavoro pubblicato su Mesh?

Ovviamente una grande soddisfazione. Non ci conoscevamo, poi una sera mi ha inviato una mail chiedendomi di remixare una sua traccia. C’è reciproca stima e questo ci ha portati naturalmente a lavorare insieme sulla sua label. Dopo Where The World Ends sentivo la necessità di allontanarmi dalla musica più “dritta” e avventurarmi in cose un po’ più storte e sperimentali e in tal senso devo dire che Mesh è stata un’ottima scelta.

So che sei al lavoro su una nuova uscita, puoi darmi qualche anticipazione?

Non posso dirti molto se non che il disco è pronto, ci ho lavorato con molta calma negli ultimi 4 anni e sarà un discreto cambio rispetto a quanto fatto fino ad ora. Purtroppo con i ritardi che ci sono nel mercato discografico dovuto al vinile abbiamo rimandato al prossimo anno l’uscita. Ecco, in un certo senso New Ruins rappresenta il prologo del mio nuovo disco, a livello estetico e concettuale.

Dai campionamenti di Night Drops, alla techno emotiva di Where The World Ends fino a New Ruins. Negli anni Indian Wells ci ha abituati a una continua evoluzione da punto di vista musicale. Quanto è importante per te cambiare, evolvere e non rimanere fissati a un genere?

Fondamentale. Ripetermi mi annoia un sacco. Trovare nuovi modi per esprimermi è davvero vitale per me, ho bisogno sempre di stimoli diversi, per questo motivo le mie uscite sembrano molto differenti fra loro. Probabilmente questa cosa mi penalizza anche, ma non me ne curo. Per me è importante fare cose che mi appassionino. Se finisce la passione finisce tutto, non è mai stato un mestiere per me.

Hai cambiato negli anni anche il tuo modo di approcciarti alla produzione?

Beh sì. Ho iniziato con un solo pc ai tempi di Night Drops e ora mi sono spostato molto di più sull’analogico. Inevitabilmente questo si riflette anche nel modo in cui produco musica, magari faccio le cose con meno velocità, ma con molta più consapevolezza.

Quali sono gli strumenti, digitali o analogici, che utilizzi più spesso e a cui sei più affezionato?

Sono anni che uso più o meno gli stessi virtual instruments sul lato digitale. Quindi Absynth e la collection dell’Arturia dove ci sono delle emulazioni di strumenti molto belle. Sul lato analogico ormai sono nel tunnel dei sintetizzatori modulari, il che implica ovviamente molto più tempo per elaborare dei suoni ma anche molta più soddisfazione nel farli.

Un artista straniero e uno italiano che hai ascoltato recentemente e che ti hanno colpito particolarmente?

Te ne dico solo uno che fa per entrambi e per un motivo molto semplice. Non si è capito ancora se sia italiano o no. Abul Mogard, l’ho scoperto da poco. Musica ambient di grandissima fattura.

Ti potremo ascoltare dal vivo nei prossimi mesi?

Spero proprio di sì. Non suonare negli ultimi due anni è stato pesante. Sicuramente in concomitanza con il nuovo disco, covid permettendo, inizierò nuovamente a suonare in giro.

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