Una chiacchierata che avrebbe dovuto tenersi in una cornice diversa, ma che nondimeno si è rivelata una ricchissima fonte di stimoli. Ogni persona appassionata di certa musica dovrebbe fermarsi, appuntarseli, rifletterci su e ricominciare (quasi) da capo.
Giona Vinti, in arte Hyena, è un nome attivo da quasi 20 anni nella scena. In passato membro delle band Scum from the Sun e Hollow Bone, ha attraversato generi dall’industrial al drone, al postrock e l’avant fino all’hardcore collaborando con la storica band italiana Contropotere nel minitour CP0.4. Co-fondatore dell’iconica Rexistenz Records che ha lasciato quest’anno fondando la sua etichetta indipendente Black Rag Productions dove esplora “suoni estremi e critica radicale della società”. Nell’intervista siamo partiti dalla sua traccia inserita nel vinile del secondo volume di Kimera Mendax, per sconfinare in territori (non) nostalgici fatti di storici campionatori, filosofia ermetica e controcultura.
Com’è nata la tua collaborazione con il progetto Kimera Mendax vol.2?
È nato tutto da uno di quegli incontri fortuiti, mai casuali, avvenuto anni fa. Nei primi anni 2000 un mio carissimo amico mi portò tre dischi comprati apposta per me in fiera di Senigallia e mi chiese pure i soldi in cambio!
Alla fine ne presi due e quei dischi mi fecero innamorare del breakcore che per me fu una rivoluzione. All’epoca venivo dai rave e avevo una cultura elettronica un po’ più generalista, senza grossi punti di riferimento. Tre anni fa sempre lo stesso amico, che si chiama Crash, mi contattò consigliandomi di leggere un fumetto cyberpunk pazzesco fatto dal collettivo Kuro Jam. Io lo lessi e mi piacquero tantissimo sia il fumetto in sé sia tutti i riferimenti – musicali e non – , nonché una certa visione distopico-paranoica molto riattualizzabile ai giorni nostri.

Alchè mi misi a lavorare a un live set che facesse da colonna sonora immaginifica al fumetto, da suonare dopo la presentazione organizzata a Milano a Proprietà Pirata. La grossa novità fu l’uscita dell’Ep sull’etichetta New Interplanetary Melodies con dentro delle tracce bellissime. Quindi mi fece estremamente piacere quando Gianluca Pernafelli del collettivo Kuro Jam mi fece conoscere Simona Faraone e mi chiesero di fare parte degli 8 artisti che hanno poi preso parte alla seconda uscita.
Ne è uscita la traccia “Talamo o la memoria”, titolo molto interessante. Com’è nata?
La genesi del mio brano è abbastanza interessante. L’input era di provare a fare un’operazione quasi da colonna sonora, magari identificando una parte del fumetto come ispirazione diretta del brano. A me interessava il personaggio di Talamo, chiaramente ispirato a Giordano Bruno, e la scena in particolare che mi ha ispirato è quella in cui Decimo e Talamo sono nella stanza di rigattiere di Talamo. Il negozio di rigattiere è un luogo dove puoi trovare dei cimeli rari, impolverati, dove devi cercare. È un’ottima metafora del lavoro che fa il dj o il produttore che usa i campioni, basti pensare al fenomeno del Crate Digging. Al tempo stesso simboleggia molto bene anche la figura di Talamo. Lui ha la funzione di custode della memoria in un senso non nostalgico, conservatore o reazionario, ma di ponte fra il passato e il futuro che illumina il presente.
Nel brano ho voluto far emergere questo aspetto in primis a livello di stili musicali. Il brano ha un tiro con una cassa 808, strumento che si sente moltissimo nelle produzioni moderne. Mi piaceva l’idea di inserirla anche per strizzare l’occhio alla musica di oggi, non necessariamente la mia. Il tutto poi si fonde con il breakbeat classico che si sente prima a metà tempo e poi in versione jungle andando avanti nella traccia. Anche qui si tratta di un ponte con gli anni ’90, che sono molto rappresentati nel fumetto nei riferimenti ai rave e al supporto del vinile.
Se ci pensi la stessa jungle riprendeva dei campioni che erano già stati usati nell’hip hop per utilizzarli con un’altra finalità. Quei campioni erano a loro volta una musica del passato portata in avanti. Il funk si riattualizzava con una tecnologia futuristica, il campionatore usato in un certo modo. Ho voluto fare un po’ gioco a scatole cinesi. Il brano è stato fatto tutto con l’MPC Live, l’Akai S950 e qualcosa di modulare. Se avessi usato altre tecniche più moderne si sarebbe perso qualcosa a livello d’impatto, oltre che nei riferimenti agli anni ’90. L’MPC Live è il rifacimento dell’MPC60 che risale all’89 ed è un tipo di macchina che ho usato negli anni in varie versioni. È molto legata all’house e all’hip hop, e intrisa di storia delle sottoculture musicali legate ai beat.
L’Akai S950 ho voluto inserirla assolutamente sia per metterci dentro un po’ di storia sia perché suona da paura. L’ultimo elemento di questo viaggio concettuale è il giradischi stesso. Nella traccia ci sono degli scratch perché il vinile è di fatto uno strumento vero e proprio che viene usato in un dj set, da chi fa turntablism o dal producer che ci va a campionare qualcosa. Quindi per me era fondamentale mettere dentro Il vinile usato come strumento di una traccia che poi viene stampata su vinile, nella speranza che poi qualcuno quel brano lo riusi come tool in futuro. Tornando a Giordano Bruno si tratta di una vera e propria catena iniziatica!
Tra l’altro il vinile ha un ruolo preponderante in tutta la vicenda
Assolutamente sì, da un lato perché i dischi sono usciti in vinile e per l’intera vicenda narrata in Kimera Mendax. La storia ha un che di rivolta verso l’estrema virtualizzazione della vita, un modernismo anti-moderno. L’idea che la musica stampata sul formato analogico possa veicolare qualcosa che nel digitale si perde è discutibile a livello scientifico. Ma non è quello il punto.
C’è tutto un mondo che è dato dai limiti stessi del vinile, dalle alterazioni che il supporto obbliga a ciò che vi viene stampato sopra. Non si limita alla qualità del suono, ma si rivela nella sua fruizione perché mettere il disco sul piatto è già un gesto molto diverso dal premere un pulsante o ancor più distante dall’ascoltare la musica estremamente smaterializzata dei giorni nostri. Anche l’artwork è un grosso punto di contatto con l’illustrazione e il fumetto. Quanto puoi valorizzare la grafica di un disco quando ce l’hai in miniatura su uno schermo?

Dal punto di vista della vicenda raccontata nel fumetto, vedi delle analogie o delle avvisaglie rispetto alla società in cui viviamo?
Eccome se le vedo! Credo che il momento attuale sia estremamente aderente alla storia di Kimera Mendax. Giordano Bruno aveva un approccio alla vita e alle scienze molto ambivalente nel senso più bello del termine. Oggi la scienza e la tecnica sono diventate il timone della società. Lui da un lato è stato, come anche Galileo, un pioniere e un martire della libertà di ricerca e nel frattempo era un vero uomo del Rinascimento. Aveva un occhio alla realtà empirica e un occhio alla metafisica. Penso che questo sia importante perché senza una svolta oltre-materialista, che faccia superare l’attuale ossessione per la scienza e la tecnica come unica religione, si rischia di scivolare nello scientismo e nella tecnocrazia. Vanno ricercati un umanesimo e una componente spirituale oltre a quella puramente materialista. In questo senso il fumetto è stato in qualche modo profetico.
La componente umana forse si è andata perdendo anche nella fruizione della musica. Negli anni ha perso la sua connotazione politica in favore dell’intrattenimento puro
Senza fare nostalgismi, ogni periodo storico ha cose positive e altre negative. Io ho attraversato la scena dei rave. Non tanto la prima, quella autoctona di Roma, ma più quella legata alle tribe prima inglesi e francesi e poi, in piccolo, anche locali.
Erano scene collegate al mondo dei punkabbestia, dei raver e dei free party di fine anni ’90. Per me è stata una vera e propria scoperta perché all’epoca la mia generazione era un po’ persa. È vero che c’erano dei riferimenti, ad esempio il punk, il metal, l’hip hop dentro cui dovevi essere immerso completamente e che era una cosa più recente, almeno in Italia. Anche il grunge era un fenomeno dei nostri anni, ma era fondamentalmente un genere musicale, non è mai stata una controcultura.
C’erano i centri sociali che per me erano un punto di riferimento, ma mancava l’identificazione con una controcultura. Quando è arrivato il fenomeno dei rave avevo trovato la mia vocazione e sono sicuro che chi ha attraversato quel periodo l’ha vissuto esattamente come me. Sentivamo di partecipare alla creazione di un linguaggio nuovo e indubbiamente lì c’era una dimensione politica. Prima di tutto perché le pratiche essendo illegali ti ponevano in una condizione di forza dialettica con le istituzioni e con un mondo da cui volevi fuggire da un lato e con cui volevi al tempo stesso dialogare.
Oltre alle ideologie, erano interessanti anche le pratiche collegate a quel mondo. Ad esempio ogni settimana si trovava il banchetto che vendeva le cassette con la registrazione del live set registrato la settimana prima. In termini distributivi era il massimo dell’autoproduzione, significava essere davvero indipendenti. Metto l’accento su questo esempio perché trovo che l’autonomia sia un fattore importante per le scene musicali e non solo.
Oggi i mezzi di distribuzione, che sia Spotify, YouTube o Bandcamp, ti tolgono il controllo dell’autoproduzione. Danno l’illusione dell’autonomia, ma devono necessariamente appoggiarsi a delle grosse infrastrutture. Siamo dentro a un paradigma per cui l’autonomia è un miraggio. Io potrei realizzare adesso un brano col mio laptop, mixarlo e farmi fare il master da qualche sito online, pubblicarlo e pubblicizzarlo stasera e magari incassare già stanotte. In parte c’è autonomia, è vero, ma è tutto mediato da altro. Rispetto al banchetto per strada che ti faceva entrare in rapporto diretto con le persone, siamo su un altro piano.
È un discorso che si aggancia anche al mondo dei live, dove dipende tutto dall’ambiente di riferimento. I club medio-grandi lavorano con l’hype, facendo leva sul nome dell’artista grosso, invece la controcultura dei rave e degli squat garantiva l’autonomia di organizzare i tour o invitare gente che era in tour in Europa magari dagli Stati Uniti. Era una sinergia che permetteva ad artisti stranieri (che magari non si cagava nessuno) di far conoscere la propria musica, al pubblico di conoscere qualcosa di nuovo e a te organizzatore di non rimetterci il capitale.
Tempo fa mi è capitato di vedere un rapper che promuoveva la sua musica attraverso uno stencil sulla strada, forse sono più quei mondi oggi a cercare un rapporto diretto con il pubblico?
È un esempio interessante, così come che dei ragazzi di provincia, magari di seconda generazione, facciano un video tamarissimo con i loro amici inguaiati con la legge facendo il botto di visualizzazioni. Sono esempi di come lo spirito del riarrangiarsi si rinnova di generazione in generazione e va preso nota di chi prova a farcela con le proprie forze.
E invece a livello di produzione musicale cosa trovi che sia cambiato negli anni?
Ai tempi in cui iniziavo a vedere i primi strumenti musicali, andavo a casa di un amico che era uno dei pochi che aveva potuto mettere su uno studio. Il che era una spesa non indifferente anche se parliamo di 4 macchinette. Oggi se apri un computer con la Suite di Ableton live sei avanti anni luce, eppure…
È sicuramente vero, ed è stato detto e stradetto, che la limitatezza dei mezzi ti porta a spremerti le meningi. Soprattutto se all’inizio non hai le idee chiare è facile perdersi nelle migliaia di preset, campioni e plugin. Quello che fa il producer è un vero e proprio lavoro di scelta, quindi più opzioni hai più rischi di perderti.
Una volta il mezzo più abbordabile erano la drum machine più economica e un campionatore, oggi lo è il laptop con un qualsivoglia programma craccato. Anche l’orientamento attraverso i generi musicali è molto soggettivo e non è neanche una questione di età anagrafica. Sono dieci anni che insegno e ho assistito a diversi cambiamenti.
Se all’inizio i ragazzini si lanciavano sulla musica più commerciale, devo dire che anche in quegli ambiti c’è stato un miglioramento sia dal punto di vista della tecnica che come gusto. C’è poi il fenomeno interessante degli ultimi anni della dawless, ovvero voler fare musica, sia in produzione che live, senza il computer.
C’è stato il ritorno di fiamma dei modulari, di cui sono stato vittima anch’io, che effettivamente permettono di fare musica in maniera divertente, se conosci la sintesi, la teoria e la tecnica che ci stanno dietro.
Infine c’è tutto il mondo dei nuovi synth maker, dal successo della Elektron a tanti produttori più piccoli. È una sorta di Rinascimento per la tecnologia musicale. Sicuramente c’è una componente di feticismo e anche di moda dietro a tutto questo, ma è anche estremamente interessante perché se si è arrivati fino a qui è perché si sente un disagio nella virtualità estrema. A fronte di questa smaterializzazione totale, il ritorno alla macchina che puoi toccare è importante, con tutto quello che ne consegue.
Puoi ascoltare la discografia parziale di Hyena qui o sulla sua pagina Bandcamp.