Alla scopertà di Biodiversità Records

Alla scopertà di Biodiversità Records

Intervista a Pietro Michi, fondatore dell’etichetta Biodiversità Records

Digitalizzare la natura, creare ecosistemi musicali e, in definitiva, approcciare la biodiversità con una sensibilità artistica per guardarla (e ascoltarla) in maniera differente. 

Dacché è nata, Biodiversità Records, ha saputo ritagliarsi uno spazio importante nel panorama italiano delle etichette indipendenti. La creatura di Pietro Michi, di base a Firenze, incrocia elementi naturali e digitali, sonori e visivi, portando avanti la visione del suo fondatore in continuo dialogo con artiste, artisti e collettivi multidisciplinari.

Nicchia Elettronica, che da anni segue con grande interesse Biodiversità, incontra Pietro Michi.

Partiamo da come hai dato vita a Biodiversità Records.

Io arrivo da un percorso di studi in Scienze agrarie, a cui parallelamente ho affiancato lo studio personale di ambiti quali l’ecologia, l’ambiente e la biologia, e ora sto finendo il mio percorso di studi in bioteconoglie ambientali. Biodiversità è un concetto agronomico: è la coltivazione di ecosistemi digitali di cui l’uomo è fruitore. La componente tech è fondamentale anche perché si tratta di musica elettronica. L’ultima uscita ad esempio è incentrata sul field recording: suoni naturali che vengono poi processati da macchine. Mi piace trovare il lato più “ancestrale” legato all’elettronica, come sintetizzatori o hardware, o anche temi acustici fino a quelli più digitali e contemporanei possibili. Una volta scelto l’argomento poi mi piace variare il più possibile all’interno del tema.

Un aspetto dell’etichetta a cui tengo moltissimo è quello collaborativo. Io mi ritengo un centro intorno a cui posso gravitare tante idee o lavori. Ogni volta che mi interfaccio con un’altra persona inizia effettivamente un lavoro di collaborazione, senza snaturare la visione di nessuno.

Come avviene il dialogo con l’artista rispetto al tema delle release?

Sicuramente la tematica naturalistica ha avuto e sta avendo un boom non indifferente, ancor più dal Covid in poi. 

Quindi spesso capita che ci sia un dialogo già aperto con l’artista, almeno con chi è disposto a parlarne. Mi capita anche di parlare con persone che si sono sempre approcciate all’arte in maniera differente, senza passare da un concetto naturalistico. Ad esempio per Katatonic Silentio spero che sia stato uno stimolo ad ampliare la sua ricerca del suono e a trovare nuove forme espressive. Nel 2018 siamo partiti dai nomi scientifici di quattro felci inventate per crearci sopra una narrazione (Pteris Variata) e nel 2020 siamo arrivati a parlare di biotessuti artificiali (Bittissue), oppure con German Army abbiamo unito dei temi politici e sociali al tema naturalistico (A Week in Organ Pipe).

Devo dire che mi aiuta molto anche il mio nome perché se leggi Biodiversità sai già cosa voglio.

Alla scopertà di Biodiversità Records

Quando natura e musica si incontrano spesso ne esce un messaggio apocalittico.

L’apocalisse è sempre affascinante. È stato un tema molto presente nella musica dalla seconda metà del ‘900. Punk, post punk o alcune branche del jazz hanno sempre avuto una malinconia non indifferente abbracciando temi di fantascienza, come il cyperpunk, decadenti e talvolta apocalittici. L’apocalisse affascina perché crea empatia e fa sentire parte di una collettività che affronta un unico problema. Non è sbagliato voler parlare ad esempio del cambiamento climatico, anzi. Io penso che a partire da quel macro tema poi si accenda la scintilla per tornare al singolo organismo. Anche il Covid ha riportato l’attenzione di moltissime persone alla natura in diversi modi.

L’apocalisse è qualcosa che si pone a metà strada fra una moda, un’esigenza e l’effettiva realtà che stiamo vivendo. È molto difficile decifrare che cosa valga la pena studiare a livello artistico e, ancor più, distinguere a livello sociale fra temi più seri e le prese in giro. Io la retorica della fine del mondo o del cambiamento climatico l’avevo già in parte interiorizzata, anche grazie ai miei studi. Il mio lavoro, se vogliamo, è intriso di decadentismo perché si tratta di digitalizzare la natura o creare un archivio di elementi naturali che andranno persi, ma allo stesso tempo portare l’attenzione su una piccola pianta è altrettanto valido che parlare del cambiamento climatico. Lo scopo è uscire dalla retorica della natura succube dell’uomo o, al contrario, di qualcosa che ci farà morire tutti. È qualcosa con cui abbiamo sempre convissuto e che sarà sempre con noi.

Hai citato alcune ultime uscite, io ho apprezzato moltissimo quella di L O S C I. Ce ne sono altre in programma?

L’album di L O S C I (Leisure Beasts for Absolution) è stato recepito molto bene. È stato il frutto di un lavoro collaborativo con Ghost City Collective, una bella esperienza.

Dopo di lui, anche per controbilanciare tutta la potenza del suo album, è uscita una raccolta di field recording dal titolo 15 Soundscapes. Feci un’esperienza identica 2 anni fa attraverso una call, ma all’epoca avevo meno seguito e mi arrivarono una ventina di Field recording. In questo caso mi ci sono voluti due mesi pieni, passati ad ascoltare e riascoltare registrazioni ambientali. Alla fine è venuta fuori una compilation di 15 brani tra cui uno che prodotto da me. Fare una raccolta di brani tramite call è molto divertente perché ti mette in contatto con gente da tutto il mondo e ti permette di trovare più diversità possibile. 

Ci sono due uscite in programma: una è la mia prima release sull’etichetta come P I T. É un EP a cui sto lavorando da due anni di tre tracce più due remix in digitale. Sarà un lavoro collaborativo con i ragazzi di G.U.N. Poi uscirà una ragazza, Rlung, il cui lavoro è il risultato di un viaggio in Giappone fra ambient, uso di sintetizzatori, piano e field recording. Unirà concettualmente la natura dei giardini giapponesi con la vita delle persone, usando la pietra come elemento centrale della riflessione.

Che equilibrio c’è tra la componente estetica e quella musicale delle release?

Hanno pari valore. Può capitare a volte che una persona si innamori di una cover appena la vede, a volte più che di un album. Per me quindi la parte grafica è molto importante. Alcune le curo io personalmente o comunque ci metto una mano importante. Sono quasi più rigido su questo che sull’audio a cui concedo più libertà.

C’è un posto sulla terra dove vorresti fare field recording?

Oggi si può viaggiare per il mondo solo con l’immagine: arrivi in un posto prima con gli occhi che con le orecchie. Si hanno sempre più impulsi visivi e sempre meno acustici da luoghi che non ti immagini assolutamente che suono possano avere.

A me hanno sempre colpito le grotte. Ne ho visitate in Slovenia e anche qui in Italia e c’è un ambiente sonoro incredibile. Paradossalmente sono molto affascinato dal silenzio che nelle grotte è puro, in un’accezione tutta sua. Mi intrigherebbe farmi guidare più dal suono che dalla vista per decidere un posto da visitare, per esempio non sono mai stato nei grandi canyon a sentire il suono dei grandi movimenti d’aria che li attraversano.

Alla scopertà di Biodiversità Records

Hai dei progetti per il futuro?

È tutto un work in progress. Non esistono punti fermi e mi sento completamente libero di cambiare linea se mi arriva la scintilla. In questo momento sono felice che l’etichetta abbia un’identità molto forte data da me e dalle persone che ci hanno collaborato. 

Ho anche un desiderio di emancipazione e nel prossimo anno vorrei aprirmi a nuove prospettive oltre a quella musicale. Vorrei pubblicare un libro per portare sia in forma scritta che grafica il discorso avviato con Biodiversità. Il mondo naturale che si intreccia col mondo digitale e la loro percezione da parte sia di chi crea sia di chi ne fruisce. 

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